Giovedì ascoltavo una lezione di un monaco, caro fratello della tradizione Plum Village di Thich Nhat Hanh. Questo periodo di quarantena mondiale ha reso accessibile per me risorse preziose, uniche, come quella di partecipare al Summit “In the footsteps of Thich Nhat Hanh” organizzato da Lion’s Roar (http://lionsroar.com). Il summit prevede una serie di meditazioni guidate e di lezioni quotidiane per i prossimi giorni. Quando ho scoperto questa possibilità, il mio indirizzo email per l’iscrizione era già stato istantaneamente inviato da un T9 zelante del mio telefono. Che gioia proviamo quando davanti a noi si materializza qualcosa di cui avevamo estremamente bisogno in quel momento!
Distesa e tranquilla, ascoltavo questo discorso del monaco Phap Hai incentrata sulle differenti tipologie di Sofferenze, che sono descritte nella tradizione Buddista. Nell’ascolto mi sono soffermata sulla Delusione.
Quanta sofferenza è delusione! Quanto ci riempiamo la testa di aspettative, di sogni, di idee che poi ci deludono. Noi stessi ci auto-deludiamo, per non parlare delle persone intorno a noi, quanto ci deludono!
Il dizionario Treccani della lingua italiana ci illumina: “Delusiòne: sentimento di amarezza di chi vede che la realtà non corrisponde alle sue speranze” oppure: “Il fatto stesso di riuscire contrario alle speranze, diverso dall’attesa”.
Delusione è nel menù di tutti i giorni. Ci riempiamo la testa di idee, di sogni, di progetti, di definizioni su tutto quello che ci circonda. Le persone sono così. La colazione è così. La Marcella è così. Un menù quotidiano di scelte: o bello o brutto, o pane o riso, o faccio bene o faccio male.
Il cervello funziona in maniera analitica: cataloga, archivia, definisce dando nomi. Mi ritorna in mente una riflessione a riguardo delle definizioni, nel bellissimo libro Il sorriso segreto dell’essere, di Mauro Bergonzi, altro luminare pensatore che ha segnato la mia esperienza su questi temi. Descrive Bergonzi: “La funzione propria del linguaggio consiste nel definire e circoscrivere porzioni limitate di realtà attraverso i nomi […] Nessuna parola è ciò che indica: non potrai mai sfamarti con la parola ‘pane’, né scaldarti con la parola ‘fuoco’”. Mi soffermo su il frammento “porzioni limitate di realtà”. Una porzione è una parte, un assaggio di qualcosa. Così da quell’assaggio di esperienza che sto vivendo, ne traggo una definizione totalizzante, che praticamente sempre si trasforma in una mia congettura, idea, e che col passare del tempo diventa sempre un’illusione. Come se non sapessimo che ogni illusione prima o poi si trasforma in una delusione.
Mi faccio un idea di qualcosa e questa non rispecchia la realtà, per intero. Ho un sogno che si avvera e poi non è come lo avevo sognato, del tutto. Questa sofferenza è radicata dentro di noi, non si può sfuggirgli, e sistematicamente rincariamo la dose di sofferenza dicendo a noi stessi che abbiamo sbagliato: ora possiamo anche rimanere delusi di noi stessi. Un circolo vizioso.
Quello di cui parlava Brother Phap Hai nella ‘talk’, in linea con la tradizione mindfulness del maestro Thich Nhat Hahn, ci pone una domanda. Aldilà dei pensieri e delle idee che ci facciamo, dando per certo che è umano farseli, quanto siamo presenti all’ esperienza della realtà che c’è nel qui ed ora? Respiro: eccomi, sono qui. Sento il mio corpo, è qui. Sono viva. Sono tesa? Si, lo sento nei miei muscoli. Mi sento delusa? Si. O forse no. Cosa sento? Non lo so. Ah, è già passato. Esatto. Passa. La delusione poi passa. La sento, fa male un attimo, due, tre, ma la posso lasciare andare. Mi posso io rincuorare come una brava mammina di me stessa, finché non passa.
Meditare aiuta così tanto. Respirare riconoscendo questo flusso continuo dell’aria che entra e che esce. Riconoscere la qualità del respiro vuole anche dire vedere che è impermanente, come impermanente è la mia idea, la mia emozione, inizia e prima o poi finisce. Quanto nutriamo e rafforziamo i nostri pensieri e le nostre emozioni ingigantendole, costruendoci sopra, invece di nutrire il nostro agio nel lasciarle passare? Perché agiamo continuando a nutrire le idee, facendole irremovibili, invece che nutrire la consapevolezza che sono parziali, limitate, finite? Perché non nutrirne la fluidità, quella danza che ci porta costantemente da un luogo ad un altro, occupandocene senza preoccupandocene, da un istante ad un altro?
Questo periodo di quarantena sta generando tantissimo stress nelle persone. Lo sento anche in me. Vorrei riflettere su cosa ci crea delusione anche in questa situazione. Possibili domande: vorrei che si trovasse una soluzione immediata e nessuno ne è stato capace? Vorrei godermi questo tempo solitario a casa (tanti ci dicono “Finalmente puoi fare tutte le cose che non hai mai fatto prima!”), ma non ho voglia di fare assolutamente nulla? Vorrei riposarmi, ho il letto e il divano sempre a disposizione, eppure sono più stanca di sempre? Quante idee abbiamo a riguardo, quante aspettative. Altrettante delusioni, altrettanta sofferenza.
Ritorno all’inizio di questa pagina. Non mi sono mai definita come qualcuno che scrive per gli altri. Ho sempre qualcosa da dire, è vero, ma mi esprimo usualmente col movimento: danzo, agisco, pratico. Le parole non le conosco bene come conosco il movimento. Conosco il mio corpo anatomico e lo utilizzo come il mio strumento. Ma non importa, oggi provo a dire a voce cosa sto facendo.
Ho pensato di danzare via la mia quarantena. Danzare via questa prospettiva di chiusura, di isolamento, di segregazione. Danzare via l’idea, qualunque sia, che mi son fatta della quarantena. Danzarla con il mio corpo che si muove respirando, in spazi diversi, domestici, angusti, instabili. Danzarla con il movimento delle mani che impastano la pizza. Danzare via la quarantena delle emozioni in castigo, con il gesto di una carezza sulla testa di mio figlio. Come sono lisci i suoi capelli! Danzo via la quarantena dei pensieri e delle aspettative, delle paure, che inevitabilmente cozzano con la mia quotidianità. I pensieri non cessano di esistere, ma li danzo via, li sciaguatto, cambio l’ordine delle lettere di cui sono composti, li lascio scivolare sul mio respiro, sulle bolle della vasca da bagno, finché non mi ritrovo qui, ora, nella mia pace. Mi placo e osservo le nuvole che passano nel cielo, una danza.
La mia riflessione non è nata dal desiderio di fare una lezione sulla delusione e sulle sofferenze descritte dal Buddismo. Provo sollievo, gioia e gratitudine, quando incontro parole che mi hanno scatenano maremoto interno. Provo gioia a condividere queste domande. Questo mio pensiero lo condivido con voi che leggete, lasciandolo così come è nato. Grazie a tutte le esperienze che viviamo ci trasformiamo, grazie alle delusioni che proviamo possiamo trasformare quella prospettiva o quella idea limitata che abbiamo ed averne una nuova, fresca. Grazie agli incontri, remoti che siano, con gli altri, noi cambiamo. Stiamo danzando tutti insieme, oggi.